Zavattini : una reverie

“Fu così che con la guerra i miei lasciarono Luzzara, per andare a lavorare presso una fabbrica di Parodi, quello della Bombrini – Parodi Delfino, che aveva stima di mio padre.
Invece di andare in guerra, mio padre andò a dirigere l’albergo, il ristorante degli operai, dei dirigenti, della fabbrica di Segni Scalo.

( è probabile che l’autore intenda dire l’albergo e i ristoranti del Villaggio Industriale di Colleferro di Roma. A segni Scalo c’è sì la fabbrica, ma gli esercizi di ristorazione e alberghieri, in quella frazione, sono di privati quali le famiglie Valsacco e Barucca).

Nel 1917 seguii i miei genitori a Segni Scalo. Il caffè a Luzzara lo avevamo dato in affitto a dei miei parenti. Erano pieni di debiti e per tenermi lontano dai fantasmi della miseria mi misero in pensione a Roma. … ”
(C. Zavattini : Io. Un’autobiografia. Einaudi, 2002. p. 18.)

Michele Oddini poteva ritenersi soddisfatto del suo lavoro:

Il Villaggio di Colleferro di Roma era ormai ultimato; gli impianti industriali, dopo la sezione chimica, si stavano per completare con le imponenti strutture del forno per la produzione di calce e cemento.

Ad avvalorare l’importanza di questa avventura industriale alle porte di Roma, lo stesso ministro dell’interno Orlando era venuto ad inaugurare il villaggio operaio: il 4 dicembre 1916, festa di S. Barbara, patrona del nuovo insediamento.

S. Barbara proteggeva “da furmini e saette”; cosi dicevano i cavatori di calcare delle cave segnine.

E proteggeva pure dagli scoppi e dagli incendi.

Figuriamoci una fabbrica come quella della BPD, con le sue attività chimico-esplosivistiche se non avesse bisogno di un tale occhio di riguardo.

Nel vecchio Castello di Colleferro, la piccola cappella, che sopravviveva su di un lato del poderoso fortilizio ormai in abbandono e in rovina da secoli, custodiva un altarino dedicato alla Santa.

Un prete da Valmontone, per usufruire dei benefici offerti dal Principe Doria, doveva tenervi periodicamente messa per i pochi abitanti del Casale,
Santa Barbara d’ora in poi avrebbe scandito, nel bene e nel male, la storia della comunità colleferrina.

Sono passati 2 anni da quel 4 dicembre 1916.

Si è conclusa, vittoriosamente, la guerra.

Gli stabilimenti di Parodi vanno a gonfie vele.

Con il conflitto mondiale e con il Governo che reclamava ordigni per le truppe ammassate e ammazzate al fronte, le produzioni belliche avevano subito un’impennata.

Gli stabilimenti e il villaggio residenziale potevano ben definirsi il fiore all’occhiello di Michele Oddini.

L’architetto e ingegnere Michele, si era trasferito da Ovada con tutta la famiglia: i suoi piccoli tre figli che crescevano come le mura del paese; la moglie Serafina Delfino che nel cognome portava l’antica parentela con l’industriale Leopoldo.

Era questa un’avventura pionieristica che lo riempiva di orgoglio; lui che proveniva da una famiglia dove c’erano stati poeti, ingegneri, letterati, patrioti.

Aveva studiato al politecnico di Milano; frequentato l’accademia di Brera. Le sue basi tecniche e artistiche erano più che solide.

Amava documentare le fasi salienti dei cantieri in costruzione; dei condomini che man mano andavano completandosi.

Accademia Urbense – Ovada – Collezione G.Gastaldo

Con la macchina fotografica si era premurato – e anche divertito – a riempire pellicole e ad annotare dietro le stampe qualche appunto.

La foto della cappella cimiteriale, ad esempio, dove scrive della urgenza di un luogo di sepoltura, dopo la epidemia di “spagnuola”.
Ma non tralascia, pur nella gravità del momento, di sottolineare la disposizione e l’orientamento del cimitero – come per dare ai morti la possibilità di un ultimo sguardo sulla storia – che guarda il Castello diruto di Colleferro, sorto sulle vestigia dell’antica città romana di Verrugo.

Oppure la foto dei bambini che vanno a scuola.
Fra questi non si può non notare uno scolaro che nei tratti somiglia già a papà Michele.

Ogni tanto si riconciliava con il disegno e la pittura realizzando un acquerello; fosse una torre medievale, una villa storica dei dintorni, un paesaggio agreste.
Qua e là si era lasciato andare anche a qualche foto “antropologica”: gli operai al lavoro; i poco più che bambini, dallo sguardo serio, con la “cofana” sulla spalla; gli spaccapietre; e i notabili.

Accademia Urbense – Ovada – Collezione G.Gastaldo

Eccoli quest’ultimi, nella foto, disposti davanti al Ristorante A-Circolo Impiegati.
Forse è per la ricorrenza proprio di Santa Barbara.

Accademia Urbense – Ovada – Collezione G.Gastaldo

Ci saranno stati festeggiamenti, cosi come li descrive “Il Dovere”, giornale di Colleferro, per il 4 dicembre 1918.

Gli operai si saranno ritrovati al Ristorante B-Mensa Operai, per la busta con la giornata di paga omaggio e per il vermuth.

Gli scolari più bravi per ritirare la borsa di studio e le giovani adolescenti , tre le sorteggiate fra tutte, per ricevere 100 lire da mettere su libretto postale a costituire una base alla dote matrimoniale.

Loro, i Dirigenti gli Impiegati e i Tecnici, avranno da poco mangiato.
Si saranno raccontati storie di caccia; qualche pettegolezzo sugli scapoli e le donne di fabbrica;

La guerra è ormai lontana.

Ora si stanno fumando chi un sigaro chi una sigaretta.

Nella foto riconosco il Dottor Stella, medico di fabbrica, ma anche del Villaggio.
E’ quello al centro, piccoletto, di un eleganza campagnola, con la giacca troppo lunga a nascondere una incipiente rotondità; e gli stivali tirati a lucido.


Il dottor Stella è stato il mio medico curante fino a quando alla fine degli anni ‘50, proprio uscendo dalla mia abitazione – era stato chiamato da mio padre per una improvvisa febbre, alta, che mi aveva costretto a letto – fu investito e ucciso sul colpo da tre giovinastri che scendevano follemente sua una moto per via Gramsci.

Ho sentito in seguito una sottile colpa per quel concatenarsi casuale di eventi che mi rendeva in qualche modo responsabile.
Ma torniamo alla foto.

Quello che mi colpisce in questa foto è il giovane cameriere, a sinistra, appoggiato al muro.

Dovrebbe essere fuori campo e invece finisce per rientrare discretamente nell’inquadratura fotografica.

Non fa parte del gruppo; lo osserva.

Ingrandendo l’immagine si suppone, dalla fessura degli occhi, una probabile miopia.

L’espressione è quasi sorniona: un abbozzo di sorriso.

Chi è questo giovane che mi stupisce per il suo distacco dalla scena?

I ristoranti del Villaggio erano gestiti in quegli anni da una famiglia proveniente da Luzzara.

Gli Zavattini.

Avevano lasciato in affitto il loro bar nel paese facendosi convincere da Angelo Parodi, fratello di Leopoldo, patron della BPD, a scendere giù a Segni Scalo; dove c’erano i nuovi stabilimenti di questo intraprendente ingegnere che già a Pontelagoscuro, sempre nel ferrarese, aveva impiantato una distilleria.
Avranno certamente considerato le potenzialità del luogo.

Un po’ come mio nonno Giovanni che nel ’25 prese moglie e figli – sei, più uno nato l’anno dopo – e se ne venne a lavorare presso la stazione ferroviaria di Segni-Paliano.

Abbandonando Anzio e il paludoso Agro dove tanto amava cacciare.

Se ne tornò sulle tracce segnine dei suoi avi, per poi lasciarci le penne solo dieci anni dopo, tra due locomotori in manovra.

I ristoratori Zavattini avevano un figlio, Cesare; poco più che quindicenne.

Dietro si era portato un aria scanzonata e trasognata; anche un poco ribelle.

A Roma nel ’17, stando a pensione da amici di famiglia, invece della scuola, se ne andava per mostre e cafè chantant.

Conclusione: a fine anno, bocciatura.

Allora i genitori lo costrinsero al collegio di Alatri.

Qui si diplomavano i figli dei notabili ciociari.

E Cesare, senza perdere comunque la sua indole ribelle riuscì a farsi apprezzare e a prendere la maturità.

Certamente i sabati, le domeniche e le feste comandate, seppure non sempre, avrà trovato modo di tornare a casa, dai suoi, a Colleferro.

Li avrà pure aiutati in cucina e a servire ai tavoli.

Oggi 4 dicembre 1918, c’è stata gran festa.

Lui ha lavorato tanto.

Adesso che il pranzo è finito i commensali si stanno facendo una foto ricordo.

Lui tira il fiato; è un po’ stanco per le ore passate in piedi.

Si appoggia al muro; distanziato; se li guarda.

Non sa di essere anche lui inquadrato.

Né lui né gli altri immaginano quanto la pellicola sarà importante nella sua lunga vita.

Da un racconto di Luigi Marozza